QUESTIONI DI PACE

Nell’estate che segna ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa torna a marciare al passo della guerra, con il passo pesante e miope del riarmo. I Paesi della Nato, Italia inclusa, hanno deciso di portare la spesa militare fino al 5% del Pil entro il 2035. “Un salto mai visto, una corsa che non porta alla pace, ma al suo contrario. Le cifre parlano chiaro: si tratta di decine e decine di miliardi sottratti ogni anno non al superfluo, ma al necessario. A sanità, assistenza, scuola, università, ambiente, cooperazione allo sviluppo. Ogni euro investito nelle armi è un euro negato alla costruzione di futuro. Perché – lo sappiamo bene – i bilanci non sono elastici all’infinito. Ci è stato ripetuto fino allo sfinimento che le risorse sono limitate, che “non ci sono i soldi”, per gli asili nido, per gli ospedali, per i giovani ricercatori, per i disabili, per la casa. Ma all’improvviso, con la narrazione della minaccia alle porte, le regole sono saltate. Il vincolo di bilancio si allarga solo per armarsi. Non possiamo tacere di fronte a questa scelta che tradisce lo spirito dell’Europa nata dalla riconciliazione, che piega i paesi dell’Unione – che della Nato è la parte politicamente debole, è evidente– a logiche militari imposte da fuori. La subalternità all’alleato statunitense – oggi guidato da un Donald Trump senza scrupoli di nuovo alla Casa Bianca – è manifesta e pericolosa” (Antonio Martino, Azione Cattolica, 26 giugno).

Analisi di un disastro annunciato. Perché i paesi europei si siano piegati repentinamente alla logica pura del riarmo sarà materia di studio per le prossime generazioni di storici. Ciò che colpisce è la decisione di spendere più del doppio di quanto già si spende (il 2% del PIL) senza alcun piano accurato su ciò che realmente servirebbe. E’ vero che la Russia di Putin fa paura ed è ormai un interlocutore imprevedibile. Ma è anche vero che, al di là del principio che la pace va cercata ad ogni costo, le capacità economiche, tecnologiche e organizzative dell’Unione Europea le consentirebbero di diventare più forte semplicemente coordinando meglio le risorse militari esistenti, in un’ottica di integrazione dei soli settori critici per una difesa efficace. Già a inizio anno, col piano “Rearm Europe”, l’Unione Europea aveva fatto un passo falso, senza peraltro spiegarlo ai suoi cittadini in modo adeguato e con un dibattito democratico. Per l’Italia, tale piano già comportava di portare il deficit pubblico dal 3,4% registrato nel 2024 al 5% nel 2028.

La settimana scorsa, probabilmente per compiacere il Presidente americano nella speranza di un trattamento più clemente sui dazi commerciali, i paesi europei si sono allineati alla richiesta americana di aumentare le spese militari fino al 5% del PIL. “Il 5%, ormai è noto, si compone di un 3,5% di PIL di “difesa pura” (armi e mezzi militari) e di un 1,5% di generici “asset in sicurezza”. In questo calderone i Paesi possono far entrare un paniere largo di investimenti: l’Italia ad esempio pensa persino al Ponte sullo stretto” (Nota: benedetto progetto, che valorizza la centralità strategica dell’isola!). Il problema è soprattutto il contenitore del 3,5%. “Secondo l’osservatorio delle spese militari “Milex”, per l’Italia l’impegno del 5% significherebbe arrivare a spendere, nell’anno 2035, 145 miliardi di euro, 100 in più degli attuali 45 (corrispondenti al 2% lordo del PIL). Il “cammino” verso questo obiettivo comporterebbe una spesa militare decennale superiore di almeno 400 miliardi a quella che ci sarebbe mantenendo fermo il parametro del 2%. Numeri da capogiro per un Paese ad alto debito pubblico, che non a caso non ha ancora sciolto le riserve rispetto alla principale opzione offerta dall’Unione Europea, ovvero la sospensione del Patto di stabilità (che però non vieta ai mercati di “sanzionare” secondo i parametri dell’economia reale)” (Avvenire, 20 giugno).

Tanto per sottolineate la dimensione tragica, per lo stato sociale, della decisione assunta a cuor leggero dal governo italiano (“Si vis pacem para bellum”), la spesa sanitaria pubblica nel nostro paese vale oggi 130 miliardi, e sappiamo come sia gravemente insufficiente in assoluto e rispetto alla media degli altri paesi OCSE. Dove prenderanno, il governo attuale e quelli futuri, i soldi per finanziare il riarmo? Difficile pensare che in tale prospettiva le risorse dedicate a sanità, istruzione, welfare non solo non vengano aumentate, ma addirittura non vengano seriamente intaccate. Non basterebbe recuperare nemmeno quella ottantina di miliardi di tasse oggi non pagate. Si introdurrà magari una patrimoniale per gli armamenti? Sono due azioni assai improbabili visto il DNA dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida del nostro paese.

Sarebbe il caso che la società civile si mostrasse per una volta unita, trasversalmente in tutte le sensibilità politiche, a manifestare il proprio fermo dissenso contro la follia di una strada che porta a una economia di guerra. Sarebbe il caso che i credenti, tutti e non solo le voci più profetiche, una volta tanto alzassero la voce all’unisono abbandonando il “politicamente corretto”.

Per fortuna i cattolici hanno un papa. Sulle orme di Francesco, papa Leone fin dal suo saluto iniziale ha voluto mettere la pace al primo posto tra le sue preoccupazioni. Il giorno dopo la decisione Nato, di fronte al Roaco, la Riunione delle opere per l’aiuto alle Chiese orientali, ha tenuto un discorso lucido e profetico, indicando la via da seguire per i credenti. “Il «cuore» del Papa «sanguina pensando all’Ucraina, alla situazione tragica e disumana di Gaza, e al Medio Oriente devastato dal dilagare della guerra». Leone XIV torna a denunciare i drammi dei conflitti. Si affida a parole durissime che, però, accompagna a un richiamo: non basta «alzare la voce»; serve anche agire rimboccandosi «le maniche per essere costruttori di pace e favorire il dialogo». Il Papa parla di «veemenza diabolica mai vista prima» che «sembra abbattersi sui territori dell’Oriente cristiano». Si scaglia contro le cause «spurie» dei conflitti, «frutto di simulazioni emotive e di retorica» che occorre «smascherare con decisione» perché «la gente non può morire a causa di fake news»: in mente viene subito la propaganda di guerra legata alla guerra in Ucraina ma anche l’accusa all’Iran di costruire la bomba atomica che ha scatenato l’attacco di Israele e poi quello Usa ma che è stata smentita anche dall’Agenzia Onu per l’energia atomica incaricata di investigare sui siti di Teheran. Da qui l’invito papale a «valutare le cause di questi conflitti, a verificare quelle vere e a cercare di superarle». «È desolante vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza. Questo è indegno dell’uomo, è vergognoso per l’umanità e per i responsabili delle nazioni» (Avvenire, 26 giugno).

Poi le domande del Papa che sono un j’accuse: «Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte? Come si può pensare di porre le basi del domani senza coesione, senza una visione d’insieme animata dal bene comune?»

Nel suo discorso il Papa chiede ai cristiani di essere artigiani di pace. Come? «Credo che anzitutto occorra veramente pregare. Sta a noi fare di ogni tragica notizia e immagine che ci colpisce un grido di intercessione a Dio». E poi «aiutare»: la solidarietà come risposta alle brutalità, lascia intendere Leone XIV. Ma, aggiunge, «c’è di più, e lo dico pensando specialmente all’Oriente cristiano: c’è la testimonianza. È la chiamata a rimanere fedeli a Gesù, senza impigliarsi nei tentacoli del potere. È imitare Cristo, che ha vinto il male amando dalla croce». Senza dimenticare un impegno più “politico”, mediante lo sforzo, a tutti i livelli, per cercare soluzioni mediante la disponibilità della Chiesa a essere crocevia per far incontrare i nemici e favorire l’inizio del dialogo.

Gianpiero Poncino – Presidente Diocesano di Azione Cattolica